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MAL(e) D'AFRICA
Capitolo 41 -  Il testamento di Elisa
  


Poco prima di morire Elisa Piavotto cerca il suo notaio di fiducia per comunicargli che il suo testamento è custodito nella sua cassetta di sicurezza al Credito Italiano, ma non riesce a rintracciarlo. Allora si fa accompagnare dall'autista e lo ritira e poi a casa lo nasconde nel suo comodino, con l'intenzione di consegnarlo alla nipote Gigliola quanto prima, certa che presto verrà a trovarla. Nel testamento è scritto che erede universale sarà Gigliola Trioglio. Quando Gigliola si reca in visita alla zia ormai è troppo tardi, lei è in coma e non è in grado di parlare e comunicare quindi alla nipote di prendere il testamento dal comodino accanto al suo letto.
Dopo due mesi dalla morte di Elisa, Gigliola tramite lettera chiede al marito se la zia ha lasciato un testamento, ma non riceve alcuna risposta. 
La cugina Rosa Maria la mette al corrente che la successione di Elisa è già stata fatta in virtù di un testamento consegnato ad un notaio di Torino, a favore del marito Gianni Bulléra. Rosa Maria si reca da questo notaio e chiede che le venga mostrato il testamento. In questo modo scopre che non è scritto con la calligrafia di Elisa.
Ma che cosa era accaduto in casa di Elisa dopo la sua morte? Il marito Gianni si era preoccupato di cercare la scrittura privata che dimostrava che la casa non era sua, ma della moglie Elisa, ma non era riuscito a trovarla, al contrario aveva trovato nel cassetto del comodino il testamento a favore di Gigliola, e la richiesta di pagamento del canone di noleggio di una cassetta di sicurezza al Credito Italiano. In questo modo Gianni aveva scoperto che la moglie deteneva un conto ed una cassetta di sicurezza in una banca, di cui lui ne ignorava l'esistenza. Si era pertanto recato in quella banca ed era stato informato che il conto era praticamente vuoto. Gianni si era pure recato alla banca Brignone per farsi dare la situazione contabile della moglie alla data della sua morte. Gianni immaginava che i grandi capitali che la moglie possedeva fossero interamente depositati sul quel conto alla Brignone, ma in quella occasione aveva scoperto che pure lì vi erano solo poche centinaia di milioni. Pertanto Gianni si era convinto che i miliardi della moglie fossero un 'altra banca a lui sconosciuta e che nella cassetta fosse conservata la scrittura privata che in casa non era riuscito a trovare. Dal momento che per aprire quella cassetta avrebbero dovuto presenziare tutti gli eredi legittimi di Elisa, egli aveva concluso che l'unica possibilità che gli era rimasta era quella di redigere un falso testamento a favore di se stesso.
Quel testamento Gianni lo aveva consegnato ad un notaio e fatto registrare. Successivamente aveva ottenuto l'apertura della cassetta in sua presenza e dello stesso notaio e in questo modo scoprire che essa conteneva solo la scrittura privata e il documento con il codice segreto d'accesso ad un conto di Lugano. Il Notaio gli aveva consegnato quei documenti e nel verbale di apertura aveva scritto che la cassetta era vuota. Gianni appena a casa aveva distrutto la scrittura privata ed era venuto a conoscenza della banca svizzera in cui Elisa deteneva tutti i suoi soldi. Pochi giorni dopo il notaio aveva consegnato a Gianni la successione a suo favore, quale unico erede di Elisa Piavotto.





dal Capitolo 41


Come veramente sarebbero poi andate a finire le cose, forse neppure Elisa riuscì a capirlo bene, durante la sua malattia.

È vero che lei faceva tutto sempre con molta astuzia e buon senso ed è pur vero che era abbastanza esperta di testamenti, ma quando fu consapevole che la malattia non le avrebbe più dato scampo e che quindi lei sarebbe, ahimè, mancata prima di suo marito, tutti i suoi programmi purtroppo saltarono.
Lei da sempre aveva la più ferma intenzione di non lasciare al marito nulla di suo, semplicemente perché tutto quello che lui avrebbe potuto poi avere, presto o tardi, sarebbe finito nelle mani di sua sorella Magdala, che poi a sua volta non avrebbe avuto assolutamente alcun erede, anche tra i suoi più lontani parenti.
In questo modo la roba di Elisa un giorno sarebbe finita in mano ad estranei, e perché questo non potesse accadere Elisa avrebbe fatto qualsiasi cosa.


Non che Elisa provasse un grande piacere nell’immaginare Gigliola, oppure le figlie di sua sorella Nina, proprietarie un giorno di tutta la sua roba, ma non c’era altra scelta.
Ed allora Elisa si era convinta che l’unica che avrebbe avuto il diritto di essere sua erede sarebbe stata Gigliola, perché era l‘unica che aveva dei figli.
Nel caso delle altre nipoti, che invece erano senza figli, alla fine si sarebbe ricreata la stessa situazione della sorella di suo marito.


Se solo Gigliola fosse andata a trovare la zia moribonda un paio di giorni prima, lei, ancora cosciente ed in un attimo che si fossero trovate da sole, le avrebbe consegnato e fatto infilare nella sua borsetta quel testamento, che l’avrebbe poi resa erede di tutto.
Invece accadde che, quando Gigliola, avvertita da Gianni del peggioramento delle sue condizioni, andò a Torino, trovò la zia ormai in uno stato di totale incoscienza e non poté così ricevere dalle sue mani quel pezzo di carta, che era lì a pochi centimetri da lei nel cassetto di quel comodino, e che avrebbe potuto cambiarle totalmente la vita, e pure la vita ai suoi figli.


Rovistarono in tutta la casa, in maniera quasi convulsa, come giusto avrebbe potuto fare un ladro, ma Gianni e Magdala non riuscirono a trovare quel documento così prezioso (nel 1997 quell’immobile aveva un valore commerciale di almeno un paio di miliardi di lire ed altrettanto poteva essere il valore delle cose contenute).
Gianni però si ritrovò tra le mani qualcosa che lo fece restare senza parole, una richiesta di pagamento di 50.000 lire da parte della Banca di Credito Italiano, per il canone annuo di una cassetta di sicurezza.
“Come! Se quel conto al Credito lei lo aveva estinto tanti anni fa, com’è possibile che invece ancora ci sia una cassetta? – pensò Gianni – una cassetta deve essere collegata ad un conto!”


Ma la cosa più inspiegabile del comportamento, non molto ortodosso, del notaio fu quando dovette chiedere al signor Bulléra di apporre in calce allo stesso documento la sua firma, dopo la firma dello stesso notaio ed egli, molto titubante e con la mano tremolante, fu obbligato a scrivere Giovanni Bulléra due centimetri sotto ad Elisa Bulléra… e quel cognome Bulléra si ritrovò così scritto due volte, esattamente nello stesso identico modo, con gli stessi identici caratteri e gli stessi inequivocabili tremolii nella scrittura.
Possibile che in quel momento il notaio non avesse compreso che l’autore di quello strano testamento altri non fosse che la stessa persona che lo stava controfirmando?
Di fatto quel testamento venne accettato e pubblicato, e pochi giorni dopo lo stesso notaio convocò lui ed i funzionari delle rispettive banche per aprire le cassette di sicurezza.


Appena fu a casa Gianni stracciò in mille pezzetti quel contratto di prestanome e subito si sentì sollevato, perché da quel momento il lussuoso alloggio di corso Duca degli Abruzzi, pagato con i soldi di sua suocera Vittorina Mairano, era indiscutibilmente suo.
Poi lesse attentamente l’altro documento della banca svizzera, per cercare di capire di che cosa si trattasse, ed alla fine si convinse che quella altro non era che la misteriosa banca, dove sua moglie aveva nascosto il bottino.
“Finalmente ho trovato dove avevi messo i tuoi soldi – pensò – e tu, strega di moglie, credevi che io non li avrei mai recuperati, ora però sono nelle mie mani e domani andrò a Lugano… quel denaro passerà tutto nelle mie tasche ed io potrò, d’ora in poi, spendere tutto quello che vorrò, senza poi dover rendertene conto… come invece tu, o mia cara padrona, mi hai obbligato a fare per tutta la vita!”


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Capitolo 42 -  Processo penale contro Gianni Bulléra
  


Gigliola Trioglio, sostenuta dai suoi tre figli, si rivolge ad un avvocato torinese per presentare un esposto alla Procura di Torino contro Gianni Bulléra, con l'accusa di uso di testamento falso al fine di sottrarre ai legittimi eredi le proprietà e le ricchezze della defunta moglie Elisa Piavotto.
Come prova viene presentata una perizia calligrafica che identifica con assoluta certezza che l'autore del falso testamento è Giovanni Bulléra.
Contemporaneamente attraverso una visura catastale Gigliola scopre che il lussuoso appartamento di sua zia Elisa risulta essere di proprietà di Gianni. Questo fatto sorprendente convince Gigliola e i suoi figli che sia stato il vero motivo che aveva spinto Gianni a redigere un falso testamento a suo favore. Ovvero impossessarsi della cassetta di sicurezza, dove certamente era conservato il documento di Contratto di Prestanome, che dimostrava non essere suo.
Il Gip del Tribunale di Torino rinvia a Giudizio il Bulléra e si apre un processo penale a suo carico.
Processo che non verrà terminato per la sopraggiunta morte dell'imputato. 
A quattro anni dalla morte della zia Elisa, Gigliola si ritrova al punto di partenza, con la prospettiva che per fare annullare quel falso testamento da un Giudice e quindi ereditare, debbano trascorrere ancora altri anni.


dal Capitolo 42


Gigliola si sarebbe aspettata qualsiasi cosa, ma che il dottor Gianni Bulléra, cardiologo, primario ospedaliero, membro onorario del Lyons, Cavaliere, fosse caduto così in basso, proprio no!

Durante tutta la vita lei aveva dovuto subire inganni e sotterfugi dagli zii Piavotto, ma che ora anche quel distinto ed all’apparenza impeccabile zio acquisito si comportasse con lei nelle stesso identico modo non era più accettabile.
Anche i figli di Gigliola si sentirono offesi da quello che stava accadendo e comunque esterrefatti ed increduli, che una persona così altolocata nella Torino che conta, avesse compiuto un reato che avrebbe potuto farlo finire sulle prime pagine dei giornali.


Codice penale alla mano, Pino in quei giorni cercò di capire meglio quello che avrebbe potuto accadere se si fosse fatta una denuncia penale nei confronti di Gianni Bulléra.
Il testamento sarebbe stato invalidato e quindi reso nullo, lui sarebbe stato riconosciuto colpevole dell’uso di un testamento falso, con l’aggravante di esserne l’autore, e quindi riconosciuto come erede indegno e così non avrebbe ereditato poi nulla, inoltre sarebbe stato condannato ad una pena, alla restituzione del maltolto e pure al risarcimento di tutte le spese processuali e forse pure al pagamento di un danno morale.
Questi ragionamenti convinsero Gigliola a proseguire con una denuncia penale nei confronti dello zio Gianni Bulléra.


L’avvocato si intrattenne con loro per oltre due ore e veramente fece fatica a comprendere tutto il vero problema.
Sì, certamente aveva in quel momento in mano un testamento falso, e questo fatto giustificava la presenza di un reato penale grave, ma il problema era che i suoi clienti, coloro che avrebbero voluto farlo annullare da un Giudice, non erano in grado in maniera dimostrabile di quantificare il vero asse ereditario della signora Elisa Piavotto.
Effettivamente non fu facile far capire all’avvocato che tra i coniugi Bulléra, la ricca fosse la moglie, e che quindi era certo che da qualche parte lei tenesse depositato moltissimo denaro.


Il Gip, il Giudice per le indagini preliminari, decise di rinviare a giudizio Giovanni Bulléra, fissando la prima udienza preliminare per il giorno 18 di aprile del 2000.
Quel giorno Gigliola e suo figlio Pino furono presenti in aula, tanta era la curiosità di vedere la faccia di Gianni alla sbarra, dopo quasi tre anni che non l’avevano più visto né sentito, ma l’imputato Gianni Bulléra non si presentò ed i suoi legali depositarono un certificato medico ed ottennero un primo rinvio.
Alla nuova udienza fissata all’11 di giugno andarono solo gli avvocati di Gigliola; Gianni nuovamente non si presentò, ma quella volta il Giudice non accettò la giustificazione per motivi di salute e procedette dichiarandolo contumace; in quell’occasione Gigliola, rappresentata dal suo avvocato, si costituì parte civile nel processo.


Quando, durante un processo penale, capita che sopraggiunga la morte dell’imputato, ovviamente lo stesso processo decade, senza né vincitori né vinti.
Per Gigliola fu certamente un grave smacco, anche se le conseguenze del reato che Gianni avrebbe commesso avevano ripercussioni in questioni civili, quali la successione e l’eredità di Elisa Piavotto.
Erano trascorsi quattro anni dalla morte di zia Elisa e tutto tornò in alto mare, anche se un’eventuale causa civile contro l’unica erede di Giovanni Bulléra, sua sorella Magdala, non avrebbe potuto non tenere conto del rinvio a giudizio, che era stato precedentemente richiesto dal Gip per Gianni e quindi concesso dal Tribunale di Torino.


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Capitolo 43 -  La Causa Civile 
  


Dopo la morte di Gianni Bulléra il Processo Penale nei sui confronti si interrompe. Gigliola Trioglio è particolarmente demoralizzata, anche per la scomparsa nel 1999 di suo fratello Vico. 
Pino convince sua madre a proseguire dopo essere riuscito a sapere il nome della Banca svizzera dove zia Elisa aveva il conto.
Magdala Bulléra, sorella di Gianni apre la sua successione e scopre che sul conto bancario di Torino ci sono solo cinquantamila euro. Eredita da lui la casa della cognata Elisa e il palazzo di campagna di Pinerolo.
Gigliola nomina un nuovo avvocato a Bologna e apre una Causa Civile contro Magdala Bulléra, con la richiesta al Giudice di indagare sul conto svizzero. Chiede inoltre che il Giudice conceda il sequestro cautelativo dei beni ereditati da Magdala.
Il Giudice respinge la richiesta e a quel punto Magdala mette in vendita l'appartamento di Elisa e tutto quello che contiene.
Finalmente nel 2006 presso il Tribunale di Lugano avviene la deposizione di un funzionario della banca svizzera, il quale sorprendendo tutti, dichiara che al momento della morte la signora Elisa Piavotto non aveva alcun rapporto in essere.
Il 26 giugno 2007 il Giudice emette la sentenza, dopo dieci anni dalla morte di Elisa. Dichiara falso il testamento e condanna Magdala Bulléra a restituire quello che il marito Gianni aveva ingiustamente ereditato, ovvero semplicemente quei trecento milioni di lire che erano sul conto della banca di Torino.
A Gigliola spettano settantamila euro, oltre al rimborso delle spese legali, che incassa solo nel 2008.


dal Capitolo 43


In quei tre anni, dal 1998 al 2001, per quel processo penale iniziato e mai finito, Gigliola era andata decine di volte a Torino, in treno o in auto, quasi sempre accompagnata da suo figlio Pino, e le spese sostenute per i viaggi, l’albergo e naturalmente per le parcelle dell’avvocato, furono veramente alte.

A dicembre 2001 superavano già i 15.000.000 di lire. 
Gigliola cominciava ad essere stanca di continuare, ad ottant’anni compiuti, a pagare ed a non incassare mai nulla.
Certi giorni diceva con Pino di lasciar perdere tutto, che tanto non si sarebbe mai arrivati ad una conclusione concreta.
Lei era avvilita e continuava a sentirsi umiliata, com’era stato per tutta la vita, da quelli della famiglia Piavotto… ed ora perfino dai loro “fantasmi”.


Due giorni dopo l’amico di Pino si fece vivo e gli disse: «Tua zia Elisa Piavotto, aveva un conto alla Banca Morval di Lugano… tu fai come se io non ti avessi detto niente, d’accordo?»
Pino rimase davvero senza parole, perché quell’informazione avrebbe potuto avere un’importanza fondamentale per lui, anche se non si spiegava come l’amico avesse fatto a saperlo e soprattutto chi gli avesse fornito quel dato.
Seppe poi, da terze persone, che l’amico era il nipote, nel senso che era figlio di una sorella, di un importante esponente politico, che in quel periodo era Ministro del Governo al momento in carica.

Si usa dire che le vie del Signore siano davvero infinite!


Ma quel Giudice non sapeva che all’epoca non poteva ordinare direttamente ad una banca svizzera di esibire documenti, ma che al contrario era necessario un atto rogatorio?
L’avvocato bolognese di Gigliola, un po’ perplesso e pure scandalizzato da un simile sbaglio del Giudice, si permise di scrivere lui la richiesta, in forma corretta, da inviare al Tribunale di Appello di Lugano, che attraverso rogatoria avrebbe ordinato alla Banca Morval di consegnare allo stesso i documenti richiesti, e poi la inviò al Giudice torinese, il quale dovette solo firmarla e trasmetterla ai suoi colleghi di Lugano.


La sentenza relativa alla causa, promosso da Gigliola contro Magdala Bulléra, fu emessa dal Giudice di Torino il giorno 26 giugno del 2007, esattamente dieci anni dopo la morte della zia Elisa.
Dieci anni per dichiarare falso un testamento (palesemente e spudoratamente falso) dieci anni per dichiarare indegno l’autore di quel falso testamento, dieci anni per far avere ai legittimi eredi quanto a loro spettava.
Peccato però che agli eredi, ai quei particolari eredi di Elisa Piavotto in Bulléra, spettasse in nome di una giustizia che non è scritta nei codici, molto, ma molto di più!
Facendo due conti, anche se approssimativi, Elisa Piavotto morì lasciando su questa terra qualcosa come circa otto miliardi di lire, ovvero quattro milioni di euro.


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Capitolo 44 -  Un giallo da risolvere - Epilogo 
  


Il capitolo 44, il penultimo del romanzo, analizza tutto quanto è accaduto dopo la morte di Elisa Piavotto e rivela in che modo il conto miliardario che lei aveva in una banca svizzera, era stato svuotato da qualcuno pochi giorni prima della sua scomparsa. 
Il marito Gianni Bulléra si era recato presso quella banca, non appena aveva trovato il codice segreto di accesso rinvenuto nella cassetta di sicurezza, ma il funzionario non potè che riferirgli che quel conto era stato poco prima estinto. Gianni si convinse che sicuramente fosse stata Gigliola, su indicazione della stessa Elisa e per questo motivo decise di interrompere ogni rapporto con i parenti della moglie.
Anche gli eredi di Elisa, ovvero le sue nipoti, cugine tra loro, nutrirono sospetti reciprochi, convinte che zia avesse a una di loro consegnato il codice di accesso a quel conto, poco prima di morire.
Solo Gigliola, malgrado non avesse ereditato, si sentì serena, perchè mai aveva pensato di arricchirsi con i soldi della famiglia Piavotto, ma che solo per un fatto di giustizia e correttezza morale avrebbe avuto piacere che almeno in ultimo la cara zia Elisa le avesse, a nome dei suoi fratelli Amelio e Tonio, restituito quel debito che dal 1926 loro avevano con suo papà Nadu e che mai era stato estinto.
Quelle 900.000 lire di allora, corrisponderebbero a circa 1.000.000 di euro di oggi.



dal Capitolo 44


Gianni Bulléra riuscì nel suo intento, forse con la complicità del notaio, ma la cosa gli procurò poi una denuncia penale ed un rinvio a giudizio.

“Maledetta Gigliola – pensò più volte – come hai potuto permetterti di farmi un simile oltraggio? Denunciarmi alla pubblica autorità ed espormi ad un pubblico giudizio! Io che sono il dottor Giovanni Bulléra, conosciuto e stimato da tutti!”
Già! Gianni Bulléra era talmente una persona così presuntuosa che era veramente convinto che Gigliola non avrebbe dovuto permettersi di denunciarlo.


In quella cassetta fu rinvenuto il tanto cercato documento relativo alla casa e se solo il notaio lo avesse attentamente letto, avrebbe capito che quel documento aveva un valore, non era scaduto e chiamava in causa altre persone, ovvero i legittimi eredi di Elisa, che lei avrebbe dovuto informare, naturalmente trattenendo lei in custodia quella scrittura privata e non consegnarla nelle mani di Gianni Bulléra.
La notaio avrebbe dovuto trattenere anche quell’altro documento relativo alla Banca Morval di Lugano, e poi nel suo studio analizzarlo meglio.


Gianni rientrò a Torino veramente deluso ed arrabbiato, qualcuno si era preso i soldi di sua moglie e lui, se lo avesse avuto tra le mani in quel momento, lo avrebbe strozzato.
Nella sua mente si consolidò l’idea che fosse stata Gigliola, o forse Manuela, le uniche nipoti che avevano incontrato Elisa poco prima della sua morte.
Fu da quel momento che lui non volle più vedere nessun parente della moglie, nessun componente della famiglia Piavotto, perché chiunque poteva essere sospettato, chiunque di loro poteva con lui avere fatto il doppio gioco.
Quando gli notificarono che era stato avviato un procedimento penale nei suoi confronti, dopo una querela di Gigliola, lui si convinse ancora di più che fosse stata proprio lei ad andare in Svizzera a rubargli i suoi soldi e rimase di quell’idea fino alla morte.


Tutti gli eredi legittimi di Elisa da sempre erano convinti che c’erano in Svizzera molti suoi soldi, ma dopo che il Giudice venne a sapere che quel rapporto bancario non esisteva più alla data della sua morte, tutti pensarono che qualcuno, naturalmente avvisato dalla stessa Elisa, fosse andato all’insaputa dell’altro a ritirarli, poco prima di quel triste ed infausto giorno della sua dipartita, ovvero il 14 di agosto del 1997.
Manuela sospettò di Gigliola, che a sua volta sospettò di Manuela e delle figlie di zia Nina, loro pure sospettarono delle cugine, e nessuna di loro alla fine riuscì ad essere serena… tranne Gigliola che sinceramente mai aveva pensato di arricchirsi con i soldi della famiglia Piavotto...



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Capitolo 45 -  Addio a Gigliola 
  


"Addio a Gigliola" è l'ultimo capitolo del romanzo. E' un saluto e un omaggio alla protagonista Gigliola Trioglio, che muore nel 2010 alla soglia dei novant'anni. 
Gigliola racconta al figlio Pino tutta la storia della sua famiglia e della famiglia di sua mamma Verin Piavotto, e dai suoi ricordi traspare tutta la malinconia del passato e il grande fascino che l'Africa le aveva impresso durante tutti quegli anni.
Rattrista molto Gigliola quello che ora nei primi anni del XXI secolo, sta accadendo in Somalia e le immagini di Mogadiscio distrutta sono per lei una ferita nel cuore.
Gigliola dice con Pino che secondo lei nelle sue vene e pure in quelle dei suoi figli scorre forse un po' di sangue africano.
A fine settembre 2010 Gigliola ha un improvviso crollo verticale della sua salute, viene ricoverata all'ospedale e i medici scoprono un tumore intestinale con varie metastasi. Esattamente come era accaduto alla zia Elisa, ma a differenza di lei, Gigliola neppure fa in tempo a sapere quello che le sta succedendo, perché dopo un paio di settimane, il 13 di ottobre del 2010, lei muore, senza dover essere operata e senza inutilmente soffrire.
Il racconto di "Mal(e) d'Africa" si conclude con il funerale di Gigliola. 
Al termine della struggente e commovente cerimonia funebre, mentre la bara di Gigliola viene trasportata fuori dalla chiesa, un soprano che Pino ha appositamente contattato, intona dall’altare in latino l’Ave Maria di Schubert.
Tutti quanti sono percorsi da un brivido e a chi gli chiede il perché di un così commovente canto, Pino risponde che quella avrebbe dovuto essere una bella sorpresa per mamma, esattamente come lo era stato il giorno del suo Matrimonio, nel lontano 1946, nella chiesa di Piobesi d’Alba.


A conclusione dell'opera l'Autore scrive: 

A questo punto la storia che vi volevo raccontare è finita! Appoggio finalmente la penna sulla mia scrivania, con la speranza che il lettore si sia emozionato nel leggerla ed abbia condiviso con me gli stessi sentimenti romantici e così densi di una sottile malinconia, che mi hanno ispirato. Grazie! 



dal Capitolo 45


Gigliola in quei giorni era ricoverata alla clinica Villa Bellombra (la stessa clinica dove cinquant’anni prima era morto nonno Nadu) in seguito ad un intervento chirurgico per l’innesto di una protesi al femore, che si era fratturato per colpa di un’accidentale caduta.

Gigliola aveva quasi ottantasette anni e tutto sommato la sua salute era più che buona, ma quell’incidente purtroppo le impedì da quel momento di essere completamente autonoma, come invece era stato fino ad allora.
O meglio, Gigliola continuò a vivere da sola in casa sua, senza bisogno di badanti o governanti, ma Pino dovette quasi tutti giorni andare a trovarla, per farle la spesa, o per farla uscire di casa accompagnandola e sostenendola, e poi le scale, per scendere, lei certo non riusciva più a farle da sola.
Ma la quasi quotidiana presenza di Pino per Gigliola significò soprattutto la possibilità di avere spesso qualcuno con cui parlare, scambiare un’opinione, discutere, magari anche di politica, oppure di qualsiasi altra cosa che in televisione facessero vedere.


Gigliola, quando parlava con Pino dell’Africa e della Somalia, si riempiva di malinconia ed a volte diceva con lui che sentiva forte il legame con l’Africa e che nelle sue vene, ma pure in quelle dei suoi figli, in fondo secondo lei scorreva un po’ di sangue africano.
Capitò, in un’altra occasione, che lei disse ancora con Pino: «Se quelli della mia famiglia si fossero comportati diversamente, ora noi tutti saremmo orgogliosi di quanto in un secolo di Somalia i miei zii in effetti hanno fatto… invece a volte debbo vergognarmi di come loro si sono comportati, e non con i somali, ma qui in Italia con noi, con mia madre, mio padre… io stessa ho dovuto lottare con le unghie e con i denti contro le loro ingiustizie! E la soddisfazione finale è stata che neppure quattro soldi sono arrivati, non tanto per me, ma per voi… figli miei!»


Il pomeriggio del 27 di settembre Gigliola era sdraiata sul suo letto e chiese a Pino di spegnere il televisore, perché voleva dormire, ma poi si accorse che proprio in quello stesso momento stava iniziando un programma dedicato ai paesi delle Langhe, i suoi paesi, e lei volle vederlo.
Si collegarono in quel servizio con Alba, e poi con Canale e pure con Piobesi, dove Gigliola era nata. Fecero vedere le vigne ed i pioppeti e tutti quei piccoli paesi appoggiati sulla cime di quelle dolci colline.
«Che meraviglia che sono i miei posti! – disse Gigliola a Pino emozionata – sembra di veder casa mia… avrei tanta voglia di poterci tornare, ma so che questo di certo non potrà mai più accadere!»
Alla fine di quel bel servizio Pino spense il televisore e Gigliola si assopì.
Quel televisore non venne più riacceso e quella fu l’ultima cosa che Gigliola nella sua vita vide alla televisione.


In chiesa nei primi banchi i suoi figli e le sue tre nipoti con i loro bambini, e tra quei bambini, a dimostrazione di quello che aveva detto Gigliola, che nelle vene dei suoi stessi figli in fondo scorreva anche sangue africano, c’era pure il suo nipotino mulatto, un meraviglioso bambino con la pelle color caffelatte, che la figlia maggiore di Roberto aveva avuto con un ragazzo mozambicano.
Lei in Mozambico, aveva vissuto tre anni, come inviata della Caritas… e dell’Africa pure a lei era rimasto qualcosa!

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