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MAL(e) D'AFRICA
Capitolo 6 - Il rientro e la nuova partenza


Il sesto capitolo inizia con il ritorno in Italia di Amelio, dopo tre anni. Siamo nell'inverno del '29. Dolce e commovente è l'incontro con mamma Vittorina. Amelio ha un lungo colloquio con il cognato Nadu, creditore dell'ingente somma prestata nel '26. Gli prospetta la possibilità di convertire la coltivazione del cotone in coltivazione di banani.
Nadu suggerisce ad Amelio di portare con sé in Somalia il giovane fratello Ceti, di diciassette anni.
In famiglia la piccola Elisa reagisce molto male all'idea che Ceti debba partire per l'Africa.
A gennaio 1930 Amelio e Ceti si imbarcano sul piroscafo che li porterà a Mogadiscio. Durante il viaggio Ceti soffre molto e un medico a bordo diagnostica trattarsi di una infiammazione all'appendice. Ceti sulla nave conosce Titti, una ragazza della sua età, figlia di un funzionario molto legato al Regime e residente a Mogadiscio. Tra loro nasce una forte simpatia.
Al suo arrivo in azienda Ceti è particolarmente euforico e contento.



dal Capitolo 6


Il piroscafo, che era partito da Mogadiscio il 31 di ottobre, attraccò al porto di Genova il 20 di novembre.
A Genova il vento era gelido e lungo il tragitto in macchina fino a Torino – l’autista di Pittarello era venuto a prenderli a Genova – c’era persino la neve. Amelio, dopo tre anni di clima caldo africano, fu molto disturbato da quel freddo, che da tre anni aveva dimenticato.


Quando giunsero dinnanzi al portone di casa, ad Amelio salì un nodo alla gola, perché mamma era lì, avvolta in uno sciallone di lana, che lo stava aspettando.
Il loro abbraccio fu lungo, senza parole, con tante lacrime. Amelio pensò che al mondo non poteva esserci niente di più bello, di più commovente e di più dolce che abbracciare la mamma, dopo oltre tre anni che non la vedeva!!
Mamma Vittorina prese per mano Amelio, come se fosse ancora il suo bambino, ed insieme entrarono in casa.


«Caro Ceti… ti ho lasciato tre anni fa che eri poco più di un bambino ed ora, che sono ritornato, ti ritrovo ragazzo e uomo, più alto di me…»
«Uomo! Non sono ancora un uomo! Non ho la ragazza! Anzi spesso mi sento un bambino e mi piace giocare con Elisa… lei però, sì, che è ancora bambina!!» disse Ceti, interrompendo.
«Non devi vergognarti, Ceti, siamo tutti sempre un po’ bambini ed a volte sentirsi bambino è bello, specie in casa e agli occhi di mamma!! Comunque adesso volevo parlarti da uomo, perché tu sei comunque già un uomo… abbiamo pensato, io, nostra sorella Verin e nostro cognato Nadu, che sarebbe un’ottima cosa che tu venissi in Somalia con me».
«Cosa? Davvero? Mi piacerebbe tantissimo… ma pa’ e mamma che cosa diranno?»
«Non preoccuparti di quello che loro diranno… comunque saranno contenti, vedrai!»


Ceti e Titti diventarono subito amici e si ripromisero di vedersi una volta arrivati in Somalia, ma certo Ceti non immaginava che Merka, dov’era l’azienda, era lontano da Mogadiscio e che a Mogadiscio si andava poco, se non per bisogno e non certo per andare a trovare qualcuno. E neppure immaginava che quel Governatore di Mogadiscio, amico del padre di Titti, fosse l’amico di Pittarello e che, se non ci fosse stato lui come Governatore in Somalia, Pittarello non avrebbe mai deciso di creare un’azienda agricola in Africa e di conseguenza nemmeno i Piavotto, e quindi ora anche lui, mai sarebbero probabilmente andati in Somalia!





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Capitolo 7 - La nuova azienda Piavotto


Siamo nella primavera del 1930. Ceti, il giovane fratello di Amelio e di Tonio, è in Somalia da un paio di mesi. A lui viene affidato l'incarico di seguire la sperimentazione della coltivazione del banano.
L'azienda Piavotto e l'azienda Pittarello, per ora sono le prime che iniziano a produrre banane.
Pittarello rientra in Italia e a Roma incontra il Ministro del Governo per presentargli un piano di produzione di banane in Somalia a larga scala.
Il Governo si accorda con lui e firma un contratto di acquisto delle banane somale, che lo stesso Governo rivenderà in regime di monopolio.
E' necessario però costituire una Società in Italia che faccia da tramite tra il Governo e i produttori in Somalia.
Al suo ritorno a Genale, Pittarello convoca una assemblea tra tutti gli oltre duecento titolari di aziende agricole tra Genale e Kisimaio.
Ceti si appassiona molto al lavoro e i suoi fratelli sono sorpresi di questo ed orgogliosi di lui, malgrado la sua giovane età.
Il settimo capitolo termina con una lettera di Ceti alla mamma, datata 15 aprile 1931. Sarà l'ultima che riuscirà ad inviare.




dal Capitolo 7


Ceti fu orgoglioso di questo incarico e dimostrò di essere un ragazzo serio e maturo e si impegnò nel migliore dei modi per non deludere i suoi fratelli.
Amelio e Tonio furono stupiti di questo ed una sera Amelio disse a Tonio: «Quando nostro cognato Nadu mi suggerì di portare con me Ceti in Somalia, pensai che sarebbe stato poi un peso per noi, perché era troppo giovane e poi noi l’avevamo lasciato che era solo un ragazzetto di quattordici anni… pensavo che in questi tempi così difficili il suo aiuto sarebbe stato poco ed anzi la sua presenza qui avrebbe solo aggravato le nostre spese, senza averne un beneficio reale… debbo davvero ricredermi… sono fiero ed orgoglioso di Ceti e sono sicuro che diventerà molto bravo e che ci darà del filo da torcere, come disse Nadu!»


Amelio aveva organizzato che i caporali quel giorno avrebbero procurato almeno un centinaio di donne, ché i pulloni bisognava interrarli tutti in un solo giorno, altrimenti al sole si sarebbero seccati.
I camion scaricarono all’inizio del campo circa quindicimila tronchetti di banano, le donne iniziarono a prenderne due o tre alla volta, mettendoli dentro una specie di cesto che portavano legato alle spalle e poi si diressero verso le buche ed iniziarono a piantare i pulloni ricoprendoli poi in parte con la sabbia che muovevano con una zappetta e con le loro stesse mani nude.
In realtà quei “pulloni” di banano non erano altro che talee, una volta interrati e poi bagnati avrebbero nel giro di un paio di giorni buttato fuori dalla sezione superiore una specie di gemma, un getto che sarebbe cresciuto a vista d’occhio in una prima foglia.


La risposta a Pittarello da Roma non tardò ad arrivare, anche perché il commendator Pittarello godeva di altolocate amicizie. Pittarello fu riconvocato a Roma ed ebbe l’onore di essere ricevuto dal Ministro in persona, il quale gli offrì di acquistare tutte le banane che si sarebbero prodotte ad un buon prezzo, anche se non molto alto.
A sue spese lo Stato Italiano avrebbe inviato, una volta al mese, una nave appositamente a Mogadiscio per essere completamente caricata con gli scatoloni di banane. Poi avrebbe provveduto ad effettuare bonifici semestrali su un unico conto bancario in Italia, intestato ad un’unica società italiana che facesse da tramite tra i vari produttori in Somalia ed il Governo italiano.
Le banane le avrebbe distribuite in Italia lo stesso Governo, in regime di monopolio, e naturalmente dal prezzo di vendita avrebbe incassato una tassa.




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Capitolo 8 - Il dramma di Ceti



Il capitolo 8 è forse il più commovente dell'intero romanzo. Come dice il titolo racconta del dramma di Ceti, il penultimo dei setti figli Piavotto, di soli diciannove anni.
Siamo in aprile del 1931, Ceti è in Somalia da poco più di un anno e sta dimostrando capacità e voglia di lavorare ed è carico di tanto entusiasmo per aver contribuito alla trasformazione dell'azienda, sostituendo la coltivazione del cotone con la coltivazione delle banane.
Durante la festa per il suo compleanno egli incontra nuovamente, dopo oltre un anno, Titti, la ragazza di Mogadiscio conosciuta sul piroscafo. Tra loro era comunque intercorso un lungo scambio di lettere.
Durante la notte Ceti sta male, si riacutizzano i dolori addominali, che lo avevano colpito sulla nave e altre volte in azienda.
Viene trasportato a Mogadiscio per essere visitato da un medico chirurgo italiano, che però in quei giorni è assente, perché in Italia.
Titti lo ospita a casa sua, ma la situazione si aggrava con il sopraggiungere di febbre alta.
Il padre di Titti, convinto che si tratti di un attacco di appendicite, convince Amelio a prenotare un viaggio sulla prima nave in partenza per l'Italia.
Ad accompagnare Ceti in Italia va il fratello Tonio e la giovane Titti. Il viaggio dura diciassette giorni, ma Ceti sta malissimo. Una peritonite aggrava le sue precarie condizioni ed un medico a bordo conferma la diagnosi e gli somministra penicillina, con la speranza di arrivare a Genova in tempo, per essere immediatamente operato.
Ceti arriva a Genova in coma e viene portato d'urgenza all'ospedale, ma dopo pochi minuti muore, prima ancora di essere operato.
Il capitolo si conclude con lo straziante funerale di Ceti a Racconigi e con la disperata preghiera della sorella maggiore Verin, che si ritiene responsabile di questa tragedia. 




dal Capitolo 8


Fecero preparare da Eden boy una ricca e gustosa cena, alla quale furono invitate diverse persone di Genale, tra cui Pittarello e gli altri ex-soci Chiattarino, Boisio e Della Casa. Fu invitata anche Mariella, che era ritornata in Somalia da pochi mesi per aiutare lo zio.
Ma l’ospite inaspettata – una bellissima sorpresa per Ceti – fu Titti, la ragazza conosciuta sulla nave, la figlia di un funzionario importante del governatorato di Mogadiscio.
Ceti e Titti si erano scritti più volte delle lettere, da dopo che furono arrivati a Mogadiscio nel gennaio del 1930, ma non ebbero mai l’occasione di rivedersi. Egli gradì molto la cosa e fu sorpreso ed incredulo nel rivedere Titti, venuta appositamente per lui in azienda.
L’aveva contattata Amelio. Lei aveva accettato volentieri l’invito e da Mogadiscio si era fatta accompagnare in macchina dall’autista di sua padre.
Si abbracciarono come se si conoscessero da sempre e dopo cena, in veranda, ci scappò perfino tra loro un timido e leggero bacio sulle labbra, un semplice sfioramento di labbra, nulla di più, che tuttavia fece eccitare entrambi e tutti poterono notare, per tutta la serata, quanto i due ragazzi fossero esuberanti e felici. 


C’era da decidere il da farsi e Amelio in quel momento avrebbe voluto che ci fosse lì anche Tonio, ma lui era in azienda.

L’avvocato Beletto accompagnò Amelio al porto per sapere se eventualmente ci fosse in quei giorni una nave in partenza per l’Italia e fu così che venne a sapere che due giorni dopo una nave sarebbe arrivata, per poi ripartire il giorno seguente per Genova.
Si informarono su quando sarebbe arrivata a Genova e gli dissero che il viaggio sarebbe durato diciotto giorni.
«Ma se continuasse a star male, secondo voi potrebbe sopportare il dolore per così tanto tempo il mio Ceti?» chiese preoccupato Amelio all’avvocato Beletto.
«Caro Piavotto, l’unica cosa da fare è prenotare il viaggio, ma lei o suo fratello dovrete accompagnarlo… mia moglie, vedrà, sarà in grado di procurare abbastanza pastiglie di quella medicina che gli ha somministrato stamane, speriamo solo che la medicina lo tenga assopito il più a lungo possibile, fino all’arrivo in Italia… a Genova ci sono ospedali ed i medici potranno intervenire subito ed eventualmente operarlo». 


All’ospedale, sotto il voltone in cui entravano le autoambulanze erano in piedi ad aspettarli il cognato Nadu di Guarene insieme alla sorella Elisa, che aveva già quindici anni, ed alla sorella Nina. Abbracciarono velocemente Tonio, appena fu sceso, quasi dimenticando che erano cinque anni che non lo vedevano, allungarono la mano alla signorina Titti e poi tutti a passo veloce seguirono la barella che trasportava Ceti in sala operatoria.

Dinnanzi alla vetrata del reparto di chirurgia, si fermarono ed attesero… nessuno aveva la forza di parlare, Nina ed Elisa si asciugavano continuamente le lacrime, che non smettevano di scendere, Nadu pose un braccio sulla spalla di Tonio, in silenzio, quasi a consolarlo, Titti si sedette su una panca e si coprì il volto con le mani, quasi a nascondere le lacrime, la stanchezza e forse la preghiera che in silenzio stava recitando.
Non passò molto tempo, forse mezz’ora, e dalla sala chirurgica uscì il professore che serio ed un poco accigliato disse, rivolto a Tonio e Nadu: «Signori, purtroppo non abbiamo fatto in tempo ad intervenire, ormai era troppo tardi, il ragazzo è morto circa venti minuti fa… non posso che esprimervi le mie sincere condoglianze, mi dispiace!»
Si girò e rientrò. 


Soffiava un vento leggero che trasportava il profumo dei tigli e la banda suonava una marcia funebre. L’atmosfera nelle vie del paese era talmente greve e solenne che sembrava che fosse morto un eroe. In realtà era morto un povero ragazzo che era partito con il fratello per l’Africa, carico di tanto entusiasmo e che in Africa aveva dimostrato tanta passione per quello che doveva fare, che in Africa si era illuso di aver trovato il suo futuro, che in Africa si era innamorato… un amore che non aveva neppure fatto in tempo a fiorire!


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Capitolo 9 - I primi anni Trenta - La ripresa


Tonio, dopo il funerale del giovane fratello Ceti, rientra in Somalia.
Pittarello convoca una assemblea di tutti i titolari di aziende di Genale e di Kisimaio per la costituzione della Società che in Italia dovrà fare da tramite tra il Governo e gli stessi produttori. Vengono nominati Amelio Piavotto presidente e Pittarello amministratore delegato, i quali debbono ritornare in Italia per gestire la Società, con sede a Genova, ma con ufficio direzionale a Torino. Dal gennaio del 1932 il lavoro di Amelio in pratica diventa quello di impiegato, anche se nelle vesti di presidente, in un elegante ufficio in piazza San Carlo a Torino.
Amelio inizia ad incassare un buon stipendio e quindi a condurre una vita agiata. Anche dal Governo arrivano i primi pagamenti per l'acquisto delle banane. L'azienda Piavotto incomincia a rendere bene e pertanto la situazione economica di Amelio e Tonio si fa di colpo florida.
Tonio e Mariella nel 1933, un anno dopo, trascorrono una vacanza in Italia e annunciano il loro fidanzamento, in occasione di una grande festa nella Villa di Superga di Pittarello, zio di Mariella.
Elisa, la sorella diciottenne, partecipa alla festa e in questa occasione fa il suo ingresso nell'alta borghesia torinese.
Tonio incontra il cognato Nadu, che gli chiede la restituzione del prestito fatto sette anni prima, ora che i soldi incominciano a girare in casa Piavotto.
Tonio promette che entro un anno il debito sarà saldato. 



dal Capitolo 9


Tonio non si fermò molto in Italia, dopo la morte di Ceti.
La Somalia ed Amelio lo aspettavano giù, ché il lavoro era tanto, e le banane continuavano a crescere e si doveva essere puntuali nelle spedizioni. Partì circa un mese dopo quel maledetto giorno in cui Ceti aveva mollato appena giunto all’ospedale di Genova.
Certo fu costretto a lasciare la sua famiglia in un momento di strazio e di incomprensione, per come il destino aveva portato la famiglia Piavotto ad affrontare quel lutto così assurdo e così imprevisto.


Fu votata ad unanimità la proposta di Pittarello, ovvero di creare una società, con sede a Genova, che avrebbe gestito tutte le spedizioni che sarebbero partite dalla Somalia e che sarebbero sempre state scaricate nel porto di quella città.
Fu nominato come amministratore delegato lo stesso Pittarello e, a sorpresa, fu deciso di nominare presidente di quella società il signor Amelio Piavotto. Si decise sul nome di Amelio Piavotto, perché venne riconosciuto all’azienda Piavotto il merito di essere stata la prima tra le aziende ad iniziare a Genale la coltivazione del banano, insieme all’azienda Pittarello, naturalmente.


A luglio del 1932 fu emesso dal Ministero il primo mandato di pagamento, relativo a tutte le banane che erano state spedite da gennaio a giugno.
Fu grandissima la soddisfazione di Amelio quando con Pittarello si recò allo sportello della Banca d’Italia di Torino ad incassare quell’assegno circolare pagabile alla società Sapa.
Era un assegno a parecchi zeri! L’importo era molto alto e fu versato sul conto della società.
A quel punto c’era il delicato compito di calcolare esattamente le quote spettanti ad ogni singola azienda e poi fare i bonifici su ogni conto bancario corrispondente.
Fu emozionante per Amelio, quando il suo impiegato gliela consegnò, portare alla firma di Pittarello la distinta del versamento da farsi a favore di lui stesso, Amelio Piavotto, contitolare dell’Impresa Piavotto Fratelli in Somalia.
Fu una cifra molto alta e questo non fece che piacere ad Amelio, anche se quasi tutto l’ammontare di quel credito bancario sarebbe dovuto servire a pagare le spese di quei sei mesi di gestione dell’azienda.


Elisa aveva ormai quasi diciotto anni, si era fatta donna e quel giorno, con quei meravigliosi riccioli e quell’abito molto elegante ed alla moda, che Amelio le aveva regalato per l’occasione, fece praticamente il suo primo ingresso nella società alto-borghese di Torino.
Fu in quell’occasione che Elisa, anche se ancora molto giovane, sentì che quell’ambiente l’attraeva, forse perché, immaginando che la sua famiglia probabilmente si sarebbe arricchita, pensava che il suo futuro sarebbe stato così, oppure perché, in contrasto alla miseria vissuta da bambina, ora il suo orgoglio e la sua ambizione le facevano davvero desiderare di essere così.
Sta di fatto che poi tutta la sua vita non sarebbe stata altro che la ricerca continua del sentirsi borghese e ricca e nobile, questo le avrebbe da un lato creato l’occasione per fare la bella vita, ma d’altro lato l’avrebbe poi resa schiava di un sistema, in cui conta molto di più l’apparire che l’essere. Peccato! Perché Elisa avrebbe potuto davvero essere una gran donna, dal momento che aveva una spiccata ed acuta intelligenza, una forte volontà ed un carattere deciso ed intraprendente.


«So che ora in Somalia le cose stanno partendo e che incominciate a guadagnare qualcosa e che Amelio a Torino è diventato presidente e prende un buon stipendio… i patti erano che prima di tutto avreste pagato il debito, ed invece mi sembra che state spendendo in altre cose… Amelio si è comprato una macchina e si è fatto una bella casa… questo è un lusso! Tu vorrai sposarti e dovrai spendere un sacco di soldi per essere all’altezza di una donna ricca come la tua fidanzata… ed io fatico ad andare avanti, ché la banca non mi anticipa più neppure un centesimo, se non rientro del prestito che mi hanno concesso, ed ormai sono passati sette anni… cognato Tonio! non vorrei che ti comportassi poco bene con me, perché credo di non meritarmelo».




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Capitolo 10 - La scalata di Tonio


Tonio nel 1937 si sposa con Mariella e da Pittarello, zio della moglie, ottiene come regalo di nozze la sua azienda. Pure il padre di Mariella si ammala e, non potendo più continuare a vivere in Africa, cede la sua azienda alla figlia, la quale però dal notaio la fa intestare al marito.
Tonio durante un soggiorno in Italia ottiene che anche Amelio ceda a lui la sua parte di azienda e in questo modo Tonio si trova ad essere l'unico proprietario delle tre aziende Piavotto, Pittarello e Della Casa e i suoi guadagni cominciano a divenire consistenti. Apre in Svizzera un conto dove versa tutti i suoi capitali.
Con Amelio ha una accesa discussione, perché si rifiuta di restituire il debito ancora aperto con il cognato Nadu.  



dal Capitolo 10


Fu così che Pittarello, condividendo molto le iniziative di Tonio, promise al futuro marito della sua cara nipote che gli avrebbe ceduto l’azienda, come regalo di nozze.
«Tanto – disse – quello che è mio è in fondo di mia nipote… e se tu sarai suo marito, quello che è suo è tuo, senza alcuna differenza… tanto vale che io ceda la mia azienda direttamente a te… che per lei sarebbe la stessa ed identica cosa».
Il presidente e l’amministratore delegato della Sapa, ovvero Amelio e Pittarello, in Italia erano occupati a tempo pieno nel loro lavoro e quindi non fu difficile per Pittarello prendere quella decisione, perché la sua azienda lui ora non avrebbe più potuto seguirla e lasciare tutto quanto sulle spalle della nipote Mariella gli sembrò inopportuno.


Pittarello, ora quasi parente, essendo zio di sua moglie, era uomo d’affari che sapeva bene come gestire il denaro e come farlo fruttare nel migliore dei modi.

A Tonio interessava scoprire i metodi più facili ed i sistemi migliori per poter guadagnare sempre di più e poter pagare sempre meno di tasse.
Innanzi tutto ci fu da decidere come gestire quel conto che esisteva a Torino, intestato ai fratelli Amelio e Antonio Piavotto.
Dovette discutere a lungo con Amelio, fin quasi a litigarci, per ottenere quello che voleva.
L’azienda Piavotto era di tutti e due, come pure il conto in banca era intestato ad entrambi e lì arrivavano tutti proventi dalla vendita delle banane che l’azienda produceva, ma questo a Tonio non stava più bene, in quanto lui sosteneva che non era giusto che metà del guadagno andasse ad Amelio, che non lavorava più in Somalia, mentre in Italia lui comunque stava prendendo un alto stipendio da dirigente.


Prima di tornare in Somalia fu anche affrontato con Amelio il problema della restituzione del prestito che il cognato Nadu aveva fatto nel 1926.

Tonio in maniera ben poco corretta girò “la frittata” a suo vantaggio, per non dover tirar fuori quei soldi. Sostenne che quel prestito fu fatto in realtà al padre Nerio Piavotto, che agiva per conto di tutti i suoi figli, anche se la firma sulle cambiali fu apposta da lui e da Amelio. Sostenne in altre parole che il debito ora doveva gravare su tutti e non solo su di lui, che al momento era l’unico a lavorare in Somalia.
Amelio quella volta si arrabbiò moltissimo con Tonio, gli diede del mascalzone e gli disse che doveva vergognarsi.
Ma Tonio, che forse un po’ mascalzone lo era, fu irremovibile nelle sue decisioni.



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